Un viaggio all’inferno, che dura da quasi quattro anni, e non ancora concluso, perché per rivedere completamente la luce manca l’ultima tappa: il reintegro nell’Arma, per tornare a indossare la divisa onorata senza una sbavatura in tanti anni di servizio. E’ la storia di Enrico Abbina e Domenico Tagliente, due ex carabinieri del Comando Gruppo di Rieti, componenti di un nucleo addetto alla protezione di pentiti e collaboratori di giustizia, che hanno conosciuto gli arresti domiciliari, annullati dal Riesame, la destituzione, il processo, una prima condanna, e poi l’assoluzione, ma non è finita perché ora dovranno affrontare l’ultimo scoglio della battaglia: il giudizio del Tar che, quando la sentenza penale sarà diventata irrevocabile, dovrà decidere se reintegrarli in servizio per l’eccessività della sanzione. Una storia nata da un eccesso di “confidenza” avuto con l’ex appartenente a un clan mafioso del Messinese, deciso a raccontare ai magistrati i segreti dell’organizzazione e per questo trasferito a Rieti, dove viveva in incognito affidato alla protezione di Abbina, Tagliente e di un terzo collega, indagato e prosciolto dal giudice dell’udienza preliminare.
Le accuse
Quali erano state le accuse mosse ai due carabinieri? Quelle di aver effettuato degli accessi al pubblico registro dell’Automobil Club e al Sistema Informatico Interforze, per identificare attraverso il controllo delle targhe, i proprietari di alcuni mezzi indicati dal collaboratore, appartenente a un clan messinese di Barcellona Pozzo di Gozzo, il quale temendo vendette trasversali in virtù della sua scelta, era preoccupato di sapere chi aveva avvicinato in Sicilia la sua compagna, anche lei collaboratrice di giustizia, e la loro figlia. Apprensioni legittime, ma tutto questo si era intrecciato con un’altra inchiesta avviata autonomamente dalla procura nei confronti del collaboratore, indagato in una vicenda di intestazione fittizia di beni.
Così, nell’ambito delle intercettazioni c’erano finite anche le telefonate scambiate tra i carabinieri della scorta e il pentito. Abbina e Tagliente, certi di agire per tutelare l’uomo, come hanno sempre sostenuto dal primo momento, sia in sede di interrogatorio, che nel corso dei processi, avevano effettuato sette accessi, identificando i proprietari di alcuni mezzi. Non erano seguite altre attività e non si erano registrati ulteriori sviluppi.
L'inchiesta
Le indagini avviate dalla procura di Messina, trasferite a Rieti e, infine, a Roma, avevano subito chiarito un aspetto di non trascurabile rilevanza: i tre militari non avevano tratto alcun vantaggio personale dal loro comportamento: né regali, né soldi, né agevolazioni di alcun genere, niente cioè che potesse essere considerato infamante fino al punto da renderli indegni di vestire la divisa. Tanto è vero che i magistrati siciliani avevano indagato a piede libero i carabinieri, non ricorrendo nessuna delle condizioni per chiederne la custodia domiciliare. Ma il clima in Italia, nel 2017, non era favorevole, soprattutto per due gravi fatti che avevano sconvolto il mondo dell’Arma.
Il primo riguardante l’inchiesta e il processo avviato sulla morte di un giovane tossicodipendente romano, Stefano Cucchi, avvenuta, secondo la Corte di Assise di Roma (due militari sono stati condannati per omicidio prteritenzionale), per le conseguenze di un pestaggio subito in una caserma dove era stato condotto dopo il fermo. Il secondo, la violenza sessuale subita quell’anno a Firenze da due turiste americane da parte di altrettanti carabinieri, poi condannati in primo grado. Vicende utilizzate per sollevare accese polemiche a livello politico , tanto da spingere i vertici del Corpo a promettere il massimo rigore nei confronti di infangava la divisa.
Ecco, quel clima così surriscaldato potrebbe aver condizionato la richiesta degli arresti domiciliari da parte della Procura distrettuale antimafia di Roma nei confronti di Abbina e Tagliente, pur non accusati di reati infamanti. Una considerazione tanto più fondata se poi si va a leggere la sentenza del tribunale del Riesame che annullò, da subito, la custodia cautelare accogliendo il ricorso dell’avvocato difensore Alberto Patarini, del foro di Rieti: il reato contestato non prevedeva l’arresto e non c'erano elementi per disporlo.
La sentenza in Appello
A stabilire, dopo quasi quattro anni, che Abbina e Tagliente agirono “senza dolo”, assolvendoli perché il fatto non costituisce reato, è stata la seconda sezione penale della Corte di Appello di Roma. Nelle motivazioni della sentenza i giudici di secondo grado, pur certificando gli accessi al sistema informatico, ammessi dagli imputati, chiariscono che “si tratta di notizie pubbliche risultanti dal pubblico registro, consultabile da chiunque, seppure osservando le procedure di identificazione del richiedente, procedura che non poteva essere effettuata dal collaboratore di giustizia in quanto gli era vietato di comunicare le proprie generalità”. Considerazioni che hanno fatto ritenere le interrogazioni al registro automobilistico effettuate dai carabinieri nella convinzione di operare a garanzia delle esigenze di sicurezza del pentito, poiché non è emersa alcuna prova tra gli accessi accertati e gli interessi del collaboratore di giustizia.