Il 9 febbraio 1984 sarà ricordato come la data di uno degli avvenimenti destinato a rimanere negli annali della cronaca locale e nazionale: l’arresto, al Terminillo, di Claudio Cadinu, uno dei componenti della banda che il 19 novembre 1983 rapì Anna Bulgari, erede della dinastia di gioiellieri di via Condotti a Roma, e suo figlio Giorgio Calissoni, sequestrati nella tenuta di famiglia ad Aprilia, in provincia di Latina, il 19 novembre 1983, per il cui riscatto il commando ottenne 4 miliardi, uno dei più alti mai pagati per un rapimento in Italia. Madre e figlio, al quale fu amputato anche un orecchio (ricostruito dopo una serie di operazioni) per accelerare il pagamento del riscatto, rimasero nelle mani dei rapitori fino al 21 dicembre, quando furono liberati nei pressi del possedimento. Cadinu si arrese dopo frenetiche trattative con i carabinieri che avevano circondato il residence dove si era barricato e che minacciava di far saltare in aria, in cambio della promessa che non ci sarebbero state conseguenze per la moglie che l’aveva seguito nella latitanza, insieme al figlioletto e a un nipotino. I militari dell’Arma furono di parola e Claudio Cadinu, un appartenente al Movimento Armato Sardo, frangia terroristica nata sulle ceneri di Barbagia Rossa, aprì la porta consegnandosi al giovane capitano dell’Arma Fulvio Piacentini, ma non prima di aver bruciato in cucina alcuni documenti, un’agendina con nomi e numeri di telefono, rullini fotografici e diverse banconote dei sei milioni provenienti dal riscatto.
La notizia dell’arresto di Cadinu rimbalzò in tutte le redazioni giornalistiche nazionali, già impegnate sul caso perché altri componenti della banda erano stati fermati a Foligno, gli inviati dei giornali e le telecamere della Rai, in poche ore, si ritrovarono in via Cintia dove era previsto l’arrivo del sequestratore arrestato. Ma, con una decisione assunta all’ultimo momento per evitare la ressa di persone radunate davanti alla caserma reatina, i carabinieri tradussero direttamente Cadinu nel carcere di Santa Scolastica dove fu intercettato da un fotografo di Paese Sera, l’unico presente ad attenderlo.
Le indagini
Le indagini accertarono che Cadinu aveva svolto il doppio ruolo di telefonista e carceriere, durante una prigionia «in cui siamo stati trattati come bestie», raccontò la signora Bulgari Calissoni. Il maresciallo del reparto Operativo di Rieti Franco Bianchi, che affiancò il capitano durante la lunga trattativa, ricordò: "Mi spacciai per il colonnello comandante del gruppo che si trovava anche lui al Terminillo, e gli dissi: ti diamo la nostra parola che non ti succederà nulla se mi consegnerai la pistola. Furono attimi interminabili, ma alla fine si convinse. Mi passò l’arma dalla finestrella del bagno che affacciava sul terrazzino esterno e quando entrammo si lasciò ammanettare senza reagire, ma i suoi occhi esprimevano uno sguardo terribile".
A tradire Cadinu fu l’uso di banconote da centomila lire con le quali faceva acquisti nei negozi del paese e un’informativa del Sisde che l’aveva localizzato nella zona. A Rieti, per la detenzione illegale della pistola, in un’aula del tribunale affollatissima di gente, il sequestratore sardo, difeso dall’avvocato reatino Luigi Colarieti chiamato ad affiancare un altro penalista giunto dalla Sardegna, fu condannato per direttissima a due anni, ma volle dare atto pubblicamente ai carabinieri di aver mantenuto la promessa di non aver coinvolto nella sua vicenda l’incolpevole moglie. Nel successivo processo per il sequestro dove comparve con i complici, gli furono inflitti 30 anni in Corte d’Assise.
Molti anni dopo Claudio Cadinu, mentre stava terminando di scontare la pena e in vista dell’attenuazione del regime carcerario, scrisse una lettera a Giorgio Calissoni che la sorella del rapito, Laura Calissoni, avvocato e protagonista all’epoca delle trattative con i rapitori, giudicò come “un atto di pentimento, o di chissà cos’altro, che però era difficile da aspettarsi da una persona che era stata capace di compiere atti di tale crudeltà".