Resta, quella del 3 aprile 2002, una decisione storica assunta da un tribunale italiano in tema di impiego delle cellule staminali da parte di una donna in gravidanza, quando ancora non era consentita in Italia la conservazione per uso unicamente autologo, cioè personale, del sangue del cordone ombelicale, normativa poi oggetto di successive modifiche legislative che, oggi, permettono di utilizzarlo nel caso possa rappresentare una valida terapia per curare patologie presenti tra i consanguinei del nascituro.
La storia
Vent’anni fa a scuotere la sanità nazionale, e non solo, fu la sentenza civile pronunciata dal Ugo Paolillo, in funzione di giudice del lavoro, che andò contro la legge che consentiva il prelievo e la donazione delle cellule staminali a una banca dati, ma ne vietava al tempo stesso altri usi e destinazioni. Una decisione che sollevò numerose reazioni in campo scientifico trattandosi di un tema dibattuto da tempo, e coinvolse lo stesso ministro della Salute dell’epoca, Girolamo Sirchia, che impugnò il provvedimento, ma fu sconfitto in appello perché prevalse il cosiddetto “diritto alla salute”.
Il caso riguardò una signora della provincia di Rieti incinta e la sua speranza di poter guarire un altro figlio, affetto da una rarissima malattia, utilizzando il proprio sangue cordonale. Il tribunale autorizzò il prelievo del plasma da far conservare all'Asl e poi consegnare, su richiesta dell'interessata, ad una struttura privata per il proseguio della crioconservazione e il successivo utilizzo autologo, ma la volontà della donna si scontrò con il divieto previsto dal ministero. A sbloccare la situazione fu allora il ricorso d'urgenza presentato al giudice Paolillo, con il quale si chiedeva di autorizzare il prelievo, in quanto ultima possibilità per tentare di far guarire uno degli altri figli affetto da una particolare malattia. E nel procedimento cautelare intentato contro il Ministero della Sanità si costituì anche la società Cryo-Cell Italia, specializzata nella conservazione delle cellule staminali, alla quale sarebbe stato affidato il sangue cordonale da parte della donatrice. In entrambi i ricorsi, i legali sostennero come fosse prevalente il diritto alla salute del bambino malato, la cui unica speranza di guarigione era riposta nell'innesto delle cellule.
La causa
“La scienza medica ha rilevato che dal sangue del cordone ombelicale del neonato è possibile isolare un'elevata dose di cellule staminali, destinate progressivamente a ridursi in parallelo con la crescita dell'individuo. Peraltro la possibile compatibilità tra i diversi membri di un nucleo familiare è assai elevata, tanto è vero che l'impianto di staminali tra consanguinei è oramai frequente per la cura di leucemie e linfomi. E' evidente che la circostanza di poter prelevare cellule staminali per una possibile cura del bambino malato, è irripetibile”, sostennero gli avvocati della ricorrente, spiegando le ragioni dell'urgenza legate, appunto, all'imminenza del parto. Il tribunale si trovò quindi nella necessità di eliminare l'ostacolo posto da un articolo del decreto ministeriale che obbligava la madre, in caso di donazione, ad affidare le cellule alle strutture pubbliche senza poter pretendere che venissero conservate per il proprio figlio.
Divieto che il giudice Paolillo superò motivando come “la preclusione prevista dall'articolo 10 del decreto ministeriale, vigendo il divieto di rivolgersi a strutture private e quindi di disporre liberamente del proprio sangue cordonale da parte della donatrice, porta all'assurdo di consentire a una madre di donare le proprie cellule staminali per la salute di chiunque, tranne che per quella del proprio figlio o di altri consanguinei”. La sentenza del 3 aprile 2002 obbligò l’Asl a prelevare in occasione del parto il sangue cordonale della partoriente e a disporre la crioconservazione delle cellule staminali e, successivamente, a consegnarle, dietro eventuale richiesta della ricorrente, ad una struttura privata di sua fiducia per il successivo utilizzo.
Le reazioni
Una pronuncia che fece scalpore e fece registrare molte reazioni a livello mediatico, tanto che Rieti fu invasa dalle troupe televisive di Rai e Mediaset, piombate in città dopo l’anticipazione comparsa sulle edizioni locale e nazionale del Messaggero. Il ministro della Salute Sirchia si oppose alla decisione di Rieti sostenendo che “l'uso di risorse pubbliche per pratiche non dimostrate, ha l'unico effetto di dirottare le risorse per i molti bisogni essenziali dei cittadini che ancora non vengono soddisfatti” e questo “pur nel rispetto delle speranze riposte dai genitori nell’impiego delle cellule nello specifico caso di Rieti”. Il provvedimento impugnato dal ministero fu però respinto dai giudici in appello e la storica decisione del tribunale di Rieti si confermò come la prima assunta in Italia, perchè ritenne prevalente la tutela del diritto alla salute rispetto a una normativa ministeriale che condizionava l’impiego delle staminali solo in favore di terze persone, ma non a scopo autologo.