C’è una data nella storia giudiziaria reatina e delle inchieste più importanti che l’hanno contraddistinta sul fronte della corruzione, che può quasi sovrapporsi a quella del 17 febbraio 1992, quando a Milano prese avvio Mani Pulite con l’arresto in flagranza del presidente del Pio Albergo Trivulzio, sorpreso mentre cercava di far sparire nel water del bagno i soldi di una mazzetta appena ricevuta. E’ il 19 febbraio, giorno che coincide con la sentenza emessa dal tribunale civile di Rieti che dichiarò fallita la cooperativa Tekno Polimeri di Castel S.Angelo, e diede il via, dopo la trasmissione degli atti alla procura, a un’inchiesta per bancarotta fraudolenta che, ben presto, rivelò l’esistenza di un giro vorticoso di tangenti arrivato a coinvolgere i vertici del Ministero per l’imprenditoria giovanile dove era stato approvato il piano per finanziare la realizzazione dei capannoni.
E’ stata, insieme alla tangentopoli Crea, esplosa quasi contemporaneamente, l’indagine più importante degli anni 90 condotta da una procura ridotta nell’organico, con il solo capo dell’ufficio Gaetano La Sala affiancato inizialmente da una validissima giovane sostituta, Rosanna Scirè, e da una polizia giudiziaria efficiente nell’affiancare i magistrati, che svelò un torbido intreccio di interessi tra politica e affari dove erano naufragate le speranze di tanti giovani in attesa di trovare un lavoro. Un imbuto capace di ingoiare centinaia di milioni, dei quali fu possibile rintracciare solo alcuni rivoli perché all’epoca i magistrati non disponevano di strumenti investigativi più sofisticati come quelli introdotti negli anni successivi per altre indagini contro la corruzione. Ma quella della Tekno Polimeri è anche la storia di un processo, iniziato nel 1994, caratterizzato da una durata irragionevole, arrivando alla sentenza definitiva dopo 14 anni, ben oltre il nuovo millennio.
L’inizio
Tutto ebbe inizio con una cambiale di dieci milioni non pagata in banca alla scadenza e finita all’ufficiale giudiziario per essere protestata. Può sembrare un paradosso, ma è quanto racconta la storia giudiziaria della Tekno Polimeri, un’azienda del valore stimato (sulla carta) di due miliardi, finita davanti al tribunale civile per l’istanza di fallimento presentata da uno studio legale per conto di colui che avrebbe dovuto riscuotere l’importo di quel titolo. Ad essa si aggiunse anche l’istanza del legale di una banca nei confronti di un imprenditore che si era aggiudicato l’appalto per realizzare il capannone a Castel S.Angelo, il quale non potendo ottenere il pagamento dei lavori eseguiti da parte della società cooperativa - nei cui confronti, a sua volta, aveva ottenuto l’emissione da parte del tribunale di un decreto di sequestro conservativo - non riusciva neppure a restituire i soldi ricevuti dall’istituto di credito. Una situazione inestricabile che portò il tribunale civile a ritenere insolventi i debitori e a dichiarare il 19 febbraio 1992 il fallimento della Tekno Polimeri e del costruttore.
Il progetto
Eppure il progetto, presentato solo cinque anni prima (4 febbraio 1987) all’approvazione del Comitato per lo sviluppo dell’imprenditoria giovanile, si annunciava particolarmente ambizioso prevedendo la realizzazione di profilati per tapparelle, finestre, e persiane attraverso la trasformazione di materie plastiche. Sulla regolare esecuzione dei lavori e le garanzie avrebbe dovuto vigilare una società di monitoraggio che, invece, si rivelò abbastanza “distratta”, tanto da non accorgersi che la Tekno Polimeri aveva già incassato due miliardi senza iniziare un minimo di attività, senza assumere personale e, soprattutto, acquistando con denaro pubblico macchinari per la produzione risultati privi di pezzi importanti per funzionare, poi rivenduti a un’altra società.
Per avere un’idea dell’intreccio di interessi che si celò dietro la vicenda, basterà rileggere un passaggio della sentenza (estensore il giudice Alessandro Arturi) pronunciata dal tribunale di Rieti il 9 giugno 2000, laddove si afferma che ”la distribuzione a vari personaggi politici di una parte consistente delle somme distolte dal patrimonio della società cooperativa e nel contempo dalla destinazione alla quale erano istituzionalmente vincolate, costituisce uno dei motivi che hanno ispirato le condotte illecite”. Dunque, una tangentopoli in piena regola, baciata dalla prescrizione per i ritardi della macchina giudiziaria che salvò molti imputati.
L’inchiesta
La confessione (parziale) sul giro delle tangenti, resa da uno dei principali indagati interrogato dal procuratore La Sala, portò ai primi arresti e indagati eccellenti (secondo una prassi consolidata, ci fu chi ammise di aver ricevuto i soldi ma solo per svolgere consulenze), con il coinvolgimento di presidente e vice del Comitato ministeriale che si erano occupati della “pratica”, consentendo all’indagine reatina di fare il salto di qualità, rilanciata a più riprese nelle pagine nazionali dai maggiori quotidiani impegnati in quei mesi a seguire gli sviluppi della milanese Mani Pulite. Quello che emerse, alla fine, fu che era stata studiata a tavolino una vera e propria stangata allo Stato, sottraendo oltre due miliardi in cambio della promessa di posti di lavoro fantasma.
L’iter giudiziario
Il primo processo si aprì il 31 maggio 1994 contro nove imputati, accusati di concorso in bancarotta fraudolenta, malversazione, truffa aggravata, estorsione, corruzione, abuso d’ufficio, coinvolgendo in fase successiva un politico della Regione Lazio e un imprenditore. Il collegio presieduto da Giovanni Canzio, con i giudici Liotta e Oddi, tentò in ogni modo di fare luce sullo scandalo, ma non fu affatto facile, come non lo furono gli sforzi per ricostruire i flussi di denaro finiti nelle tasche dei politici anziché nelle casse della Tekno Polimeri, ma questa parte dell’istruttoria dibattimentale trovò una forte resistenza nelle risposte evasive e spesso reticenti di molti testimoni e imputati, messi a confronto tra di loro in aula.
Non ci fu la sentenza, ma un’ordinanza del collegio che dispose la restituzione alla procura del fascicolo in quanto erano emerse nel corso del dibattimento altre ipotesi di reato a carico di alcuni personaggi inizialmente esclusi.In aula, però, si tornò solo nel 1998, dopo oltre tre anni in cui il fascicolo rimase confinato nell’armadio di un sostituto procuratore, e il 9 giugno 2000, a quasi dieci anni dall'inizio della sua tribolata storia giudiziaria, il caso Tekno Polimeri si concluse in primo grado con la condanna (quattro anni e mezzo la pena più alta inflitta) per bancarotta e truffa degli amministratori della società cooperativa, e alcune assoluzioni per prescrizione per altri reati. Il nuovo collegio (Soana, Arturi, presidente Scipioni) condannò poi a due anni per estorsione un imprenditore accusato di aver obbligato il costruttore a subappaltargli i lavori per realizzare il capannone a Castel S. Angelo.
Il processo sullo scandalo non smise però di riservare sorprese, perché la sentenza del tribunale di Rieti fu annullata dalla Corte di Appello di Roma il 13 febbraio 2002 e, dopo un passaggio in Cassazione, si celebrò l’appello bis davanti alla Prima sezione penale, conclusosi con prescrizioni e assoluzioni il 1 ottobre 2008 dopo un iter lungo ed estenuante. Per alcuni imputati prescritti i giudici disposero la condanna a risarcire le parti civili, tra le quali la curatela fallimentare e la società dello Stato che aveva erogato i fondi, ma, come nel più scontato dei finali, nessuno ha mai rispettato quell’ordine.