Il 16 marzo 1978, in via Fani a Roma, le Brigate Rosse rapirono il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, massacrando i cinque agenti di scorta. Il sequestro si concluse 55 giorni dopo, il 9 maggio, con l’omicidio dello statista, il cui corpo fu fatto ritrovare dai terroristi in una Renault rossa, parcheggiata in via Caetani, a poca distanza da via delle Botteghe Oscure dove c’era la sede del Pci. Le tappe successive a quella drammatica pagina della repubblica sono state consegnate alla storia, anche se i vari processi, pur condannando gli esecutori materiali della strage e i capi militari del partito armato, non sono mai riusciti a svelare i dubbi su alcuni aspetti della vicenda.
La provincia di Rieti fu direttamente interessata da alcuni episodi legati al sequestro, a partire dal falso comunicato delle Br con cui, il 18 aprile 1978, si annunciava la presenza del cadavere di Aldo Moro nel lago ghiacciato della Duchessa, nel comune di Borgorose, per finire al mistero del casello ferroviario di Poggio Mirteto Scalo, nato dalla segnalazione fatta da una coppia di casellanti sulla presenza di un gruppo di uomini in divisa notato mentre attraversava la ferrovia la notte successiva al rapimento, trasportando un lungo sacco. Entrambe le vicende sono state indagate sia durante le indagini e i successivi processi, sia dalle commissioni di inchiesta parlamentari nominate per fare luce sugli aspetti del sequestro rimasti nell’ombra.
Il depistaggio
Durante i giorni successivi, mentre si cercava la prigione dello statista, fu diffuso un falso comunicato che indicava la presenza dell’ostaggio all'interno del lago della Duchessa, nel Cicolano. Intorno alle 9,30 un giornalista della redazione romana del Messaggero, dopo essere stato contattato da una telefonata di “voce maschile, con accento romanesco, ma non di borgata”, recuperò in piazza Gioacchino Belli, in un cestino dei rifiuti, il comunicato numero 7 delle Br. La telefonata arrivò mentre la polizia aveva appena fatto irruzione in un appartamento al civico 96 di via Gradoli. Lì un'infiltrazione d'acqua aveva permesso di scoprire un covo brigatista ancora “caldo”. Sembrò la svolta giusta, quella che gli inquirenti stavano attendendo da quando avevano cominciato ad indagare sul sequestro, anche se subito sorsero delle perplessità sull’autenticità del documento.
A un primo esame, il comunicato si presentò con caratteristiche assai diverse dai precedenti: era stato scritto con uno stile satirico, era molto più breve, era contenuto in un foglio più corto del solito, era privo dei consueti inserti politico ideologici e slogan conclusivi e il volantino era stato distribuito solo a Roma in fotocopia e non in originale come le altre volte. A quel punto scattò l’operazione Duchessa. Dalle 11,30 gli elicotteri, con a bordo il procuratore della repubblica di Roma, Giovanni De Matteo, già volteggiavano sulla superficie del bacino, 30 metri per 350, situato a 1788 metri di altezza sopra il livello del mare, impossibile da raggiungere con mezzi motorizzati, ma soltanto a piedi dopo alcune ore di duro cammino in mezzo alla neve.
Le ricerche
l quartier generale fu installato nell’albergo della Duchessa dove si ritrovarono i magistrati che indagavano, parlamentari nazionali della Democrazia Cristiana e uomini dei vari apparati dello Stato. Tutto apparve comunque irreale, con quella superficie del lago ghiacciata e una nevicata recente che oltre a nascondere possibili tracce fresche, rendeva le operazioni ancor più difficili. Gli artificieri utilizzarono due cariche di quattro chili di tritolo per far saltare il primo strato di ghiaccio. Poi una terza per permettere ai sommozzatori di calarsi nel lago ed iniziare le prime ricognizioni. Ci si rese conto, ma era parso evidente già da un primo vertice delle forze dell’ordine quella mattina presto, che il ghiaccio del primo strato risaliva almeno ad un mese prima e quello del secondo strato ancora più indietro al Natale 1977.
Per occultare il cadavere di Aldo Moro, i brigatisti avrebbero dovuto utilizzare anch’essi cariche di tritolo e trasportare il corpo esanime in elicottero o, ipotesi ancor meno percorribile, impegnare la lunga marcia tra le montagne con un prigioniero al piede, vivo o morto. Si trattò solo di un depistaggio, forse per allentare la pressione delle forze dell’ordine su Roma e consentire ai brigatisti di trasferire l’ostaggio da una prigione all’altra.
L'appunto nel covo Br
L'indagine scattò sulla base di un foglietto ritrovato in un covo di viale Giulio Cesare, al momento dell’arresto, in tasca ai brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda, componenti del commando che rapì il presidente della Democrazia Cristiana. In casa loro, i carabinieri rinvennero anche la mitraglietta Skorpion utilizzata per uccidere Moro. Nel foglietto c’era annotato “40,300 FF.SS.”: indicazione corrispondente al casello ferroviario numero 39 della Roma-Firenze (tra Montopoli e Passo Corese) dove la casellante disse di aver intercettato la notte successiva al sequestro, un gruppo di persone vestite da militari (le divise utilizzate dai brigatisti in via Fani erano da aviere) e, anzi, di essere stata da essi anche salutata.
Il processo
I carabinieri di Rieti e Poggio Mirteto cercarono di rintracciare un’autovettura di grossa cilindrata, di marca tedesca, notata alla mezzanotte tra il 17 e il 18 marzo, a 36 ore dal rapimento di Aldo Moro, al passaggio a livello della linea ferrovia e un mese dopo la vettura, una Bmw, fu rintracciata e il proprietario sottoposto a meticolosi accertamenti. Ma la pista che potesse trattarsi della stessa persona, e dunque da mettere in collegamento con la storia del casello ferroviario, sfumò quando il proprietario della macchina dimostrò che stava a Roma il giorno in cui a Genova fu lasciato il volantino, e alla guida dell’auto non c’era lui, ma un suo amico al quale l’aveva prestata per andare a pesca.
Nel frattempo i casellanti non vennero creduti quando resero una diversa versione su quanto accaduto la notte tra il 17 e il 18 marzo, e furono arrestati. Il provvedimento rimase secretato per cinque giorni, fino a quando la coppia fu processata, con rito direttissimo, dal pretore di Rieti Velardi. In aula, durante il processo, ci furono confronti drammatici tra gli imputati, ostinati nel ribadire che erano stati male interpretati nelle prime dichiarazioni, e i tre testimoni i quali, invece, confermarono di aver sentito i due parlare di sei, sette persone e di aver paura. I casellanti furono condannati per reticenza a sei mesi di reclusione e poi scarcerati, ma di quella storia non vollero più parlare.
Giallo senza risposta
Rimase però senza risposta l’interrogativo principale: Moro fu davvero trasferito per alcune ore dai brigatisti in Sabina? Le testimonianze e la ricostruzione del tragitto sulla possibile fuga del commando fatta dagli inquirenti, coincidevano. Non solo, ma a suffragare l’ipotesi dei carabinieri, c’era il fatto che il casello risultava facilmente raggiungibile in poco tempo da Roma, percorrendo l’autostrada oppure la statale Ternana 313 o, ancora, la via Salaria. E, poi, un’altra coincidenza fu determinata dalla circostanza che il luogo si trovava a sette chilometri da Monterotondo, paese natale di Renato Curcio, l’ideologo delle Brigate Rosse, in quel periodo detenuto a Torino perché arrestato dopo uno scontro a fuoco con i carabinieri in Piemonte. Due misteri, mai svelati.
Il ricordo
La tragica vicenda di Aldo Moro e degli uomini della scorta è stata più volte ricordata negli anni successivi, nel corso di varie edizioni di Santa Barbara nel Mondo, la manifestazione che ogni anno rende omaggio alla Patrona di Rieti. Due delle figlie dello statista assassinato, Agnese e Maria Fida, sono state ospiti in alcune occasioni dell’associazione presieduta da Pino Strinati, come pure Luca Moro, nipote del presidente della Dc e autore di un bel libro sul nonno. Più volte è stato presente alle celebrazioni di Santa Barbara anche Giovanni Ricci, figlio dell’autista della scorta ucciso, che all’epoca della strage era solo un bambino.