Il delitto di via Roma, dalla matrigna al colono licenziato, storia di un errore giudiziario

18/03/2024
L'istanza per riaprire il processo
L'istanza per riaprire il processo
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Uno dei delitti del secolo scorso che suscitarono vasta risonanza, non solo a livello locale, ma anche nazionale (“..specie quella di Roma, perché ben pagata” annotava una cronaca di quel tempo), riesumato dall’oblio dalle pagine di un recente libro a carattere storico, è quello del ricco possidente reatino Antonio Rosati Colarieti, avvenuto nella notte tra il 10 e l’11 ottobre 1912 nell’androne di un palazzo di via Roma, ucciso con diciassette coltellate, rimasto senza colpevoli dopo che l’arresto di un colono di 48 anni, appartenente a una popolare famiglia del quartiere Borgo, e il successivo processo celebrato davanti alla Corte di Assise riunita nel tribunale di piazza Cavour, stabilirono che l’imputato era innocente. E, nonostante la riapertura del procedimento avvenuta dopo la fine della prima guerra mondiale, non si giunse mai a scoprire l’autore dell’omicidio, un caso che continuò a dividere per anni l’opinione pubblica in innocentisti e colpevolisti. Un’inchiesta che percorse molte strade, tutte basate su voci, sospetti e interessate ricostruzioni popolari, che oggi non riuscirebbe a superare l’iniziale vaglio investigativo, se non sostenuto da indizi concreti. Un caso costruito sui veleni dell’opinione pubblica, dove nessuna prova è mai emersa, e che oggi sarebbe etichettato come “errore giudiziario”, ma all’epoca prevalse solo la necessità di dare un assassino in pasto alla gente.

Le piste

La prima pista battuta dagli inquirenti privilegiò subito quella della vendetta e poche ore dopo il rinvenimento del corpo i carabinieri arrestarono due fratelli reatino (il primo era stato condannato per lesioni nei confronti di Rosati Colarieti, il secondo perché era stato licenziato da un fondo della vittima che teneva a colonia), ma il loro alibi risultò inattaccabile. Nel rapporto si legge che “Francesco fu trovato a dormire e Mariano a bollire il mosto, e mancava in loro una capacità e una causa sufficienti a produrre un tanto effetto”, per cui, dopo un giorno di detenzione in cella, furono scarcerati e scagionati. Scartato il movente per furto, perché nulla fu sottratto, l’altra pista riguardò quella dell’interesse economico e si concentrò sulla figura di Gelsomina, un’ex prostituta di Salerno con cui Rosati Colarieti, dopo averla accolta in casa nel 1882, “convisse maritalmente con lei fino al 21 giugno 1910, anno della sua morte”, si legge negli atti. Nell’abitazione di via Roma rimase Laura, la sorella minore della donna, all’inizio spacciata da Gelsomina come sua figlia, e pure lei finì in carcere, accusata in qualità di mandante di correità nell’omicidio del possidente, eseguito da alcuni pregiudicati, perché la damigella di compagnia di casa Rosati l’aveva denunciata per gli interessi nutriti sull’eredità della vittima e per il possesso dei libretti di risparmio al portatore nei quali il cavaliere assassinato aveva depositato molti milioni. A pesare nei confronti di Laura, che a sua volta aveva denunciato per il presunto furto dei libretti sia la damigella che un sacerdote, furono anche le pratiche per espatriare all’estero avviate pochi giorni prima del delitto. L’opinione pubblica colpevolista, poi, fece il resto, e il giudice istruttore ebbe la certezza di avere in mano la soluzione, ma ancora una volta la pista si rivelò infondata.

Spuntò, a quel punto, la terza ipotesi, ancora una volta basata sulle voci raccolte tra la gente. Annotano le indagini che “gli autori morali dell’assassinio si dovessero ricercare tra le persone di famiglia del nipote erede dell’ucciso, e corre insistente la voce che designa con precisione la matrigna del detto erede e alcuni parenti come mandanti dell’omicidio”. Vengono alla luce storie nascoste di amanti, promesse non mantenute, ricatti incrociati, ma niente che provi la responsabilità della matrigna, scagionata dalla procura generale della Corte di Ancona che, nel frattempo. aveva avocato il procedimento.

La svolta

Infine, l’inchiesta converge sul colono reatino, ma anche in questa circostanza c’è da dire che non furono mai acquisite prove certe, solo le solite voci confidenziali raccolte da chi investigava. A muovere l’accusa fu il commissario Eugenio De Cosa, inviato a Rieti dal Ministero dell’Interno per fare luce su un omicidio considerato “eccellente” all’epoca. In quei giorni, raccolte “le voci pubbliche che correvano insistenti sul presunto assassino cominciate subito dopo il delitto” il commissario e il capitano dei carabinieri Reali, forti “del consenso di una parte della cittadinanza e di un senatore di Rieti che contribuì a fornire preziosi suggerimenti e indicazioni”, si ritenne di aver finalmente dato un nome e un volto all’omicida di via Roma. Due gli elementi che convinsero la Corte di Assise a emettere la condanna all’ergastolo contro l'imputato che si era sempre professato innocente. Il primo fondato sull’ipotesi della vendetta nutrita dal colono per il licenziamento subito da Rosati Colarieti nel 1905 e per il rifiuto di quest’ultimo di affidargli un fondo da coltivare a Campomoro, ma soprattutto il secondo, basato sulla testimonianza di una donna che indicò in un uomo dalla corporatura simile a quella dell’imputato, come colui visto fuggire dal portone del palazzo dove era stato appena ucciso il possidente. Accusa poi ritrattata, che portò alla revisione del processo contro l’agricoltore del Borgo e alla sua piena assoluzione e scarcerazione dopo oltre un anno.

Chiosò un cronista dell’epoca: “Una strepitosa manifestazione popolare ha salutato e accompagnato il professor Bruno Gregoraci dalla sede del palazzo di Giustizia a piazza Cavour dopo l’assoluzione dell’imputato, dove ha arringato addirittura la folla per ringraziarla della fervida manifestazione di simpatia e per soggiungere alcune considerazioni sul processo poco prima conclusosi in Corte di Assise”.