Dipendente malata di tumore, costretta a sottoporsi a lunghe terapie riabilitative, licenziata dal datore di lavoro per aver superato il numero massimo di giorni di assenza dal lavoro per malattia, 286 nell’arco di un anno solare rispetto ai 180 consentiti dalla legge che danno diritto alla conservazione del posto (conosciuto come periodo di comporto), vissuti lottando contro il male. Ma il licenziamento impartito dal titolare del supermercato dove Laura (nome di fantasia per tutelarne il diritto alla privacy) lavorava come commessa, era illegittimo e così l’azienda è stata condannata dalla giudice del lavoro, Francesca Sbarra, a reintegrare la donna ritenendo violato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (l’azienda ha meno di 15 dipendenti, ma Laura era stata assunta prima del 2015, anno di abolizione della norma decisa dal governo Renzi per favorire il Jobs Act) e a corrispondergli un’indennità di risarcimento dal giorno di risoluzione del rapporto, fino all’effettivo ritorno in attività. L’illegittimità va individuata nella “prolungata inerzia datoriale”, così come definita nella decisione del tribunale, che ha sconfessato la contestazione del superamento del periodo di comporto invocato come giustificazione del licenziamento.
Regola violata
L’esame degli atti, infatti, ha messo in evidenza un comportamento contraddittorio da parte del datore di lavoro il quale, quando i 180 giorni di assenza per malattia erano già stati superati (la dipendente aveva anche usufruito di periodi di assenza non retribuiti e di ferie per sottoporsi a cicli di chemioterapia, autorizzati peraltro dallo stesso titolare), aveva richiamato la dipendente facendola lavorare per alcune settimane durante il periodo delle festività natalizie, quindi di maggior impegno e afflusso di clienti, dopodiché l’aveva convocata consegnandole a mano la lettera di licenziamento. In realtà, come si può ricavare dalla sentenza, se la direzione era intenzionata a interrompere il rapporto, avrebbe dovuto farlo nell’immediatezza del superamento del periodo di assenza, invece aveva preferito attendere altro tempo ingenerando nella commessa la convinzione che l’azienda non l’avrebbe più licenziata.
In buona sostanza, non è stata dimostrata la fondatezza dei presupposti per procedere alla risoluzione, così come contestati nel ricorso presentato dall’avvocata Chiara Mestichelli, che ha assistito la signora Laura. La sentenza è innovativa per il tribunale di Rieti, non essendo noti precedenti analoghi, e chiama indirettamente in causa una legislazione del lavoro che appare carente in tema di tutela dei lavoratori costretti ad assentarsi perché malati oncologici, per i quali i diritti risultano garantiti solo da alcuni contratti collettivi e non da altri. Inoltre, chiarisce che il licenziamento non può essere disposto dal datore di lavoro secondo criteri discrezionali, ma deve rispettare norme e disposizioni stabiliti dalla legge che, nel caso della commessa, sono stati ampiamente violati.