Franco Pacilli, un signore di 85 anni, appartiene a quel mondo della giustizia ormai scomparso, precedente alla riforma del codice Rocco, nel 1989, e poi della legge che introdusse il Giudice unico nel 1999. Figura che le ultime generazioni di avvocati non hanno conosciuto, eppure Pacilli, coadiutore giudiziario e assistente in aula durante la celebrazione dei processi penali, sia in tribunale che in pretura, può essere annoverato nella categoria dei lavoratori che dietro le quinte svolgevano silenziosamente il proprio dovere, motivo per cui risultavano apprezzati dai magistrati fino al punto, a volte, da essere considerati persone di fiducia. A piazza Bachelet c’è stato trent’anni, tante le storie e i volti da mettere in fila, con il timore di dimenticare qualcuno.
Cento testimoni
Ricorda Pacilli, non senza orgoglio: “Non c’è stata un’udienza in cui non ho indossato la toga, a quei tempi per noi assistenti era obbligatoria come per i giudici e gli avvocati, e da loro ci distingueva il colore delle cordoniere laterali che era rosso. Portarla era un segno di rispetto verso tutti, durante i processi eravamo una figura di riferimento, chi doveva testimoniare oppure aveva bisogno di informazioni, si rivolgeva a noi, non è come oggi che nessuno la indossa più. Una volta mi trovai a essere di turno in una causa in cui erano stati citati cento testimoni, un numero mai visto, che da solo non potevo gestire e allora chiamai uno dei miei colleghi, Renato Colasanti (altri assistenti erano Bruno Di Biagio, Patrizia Neroni e Maura Ramagogi), con il quale riuscimmo a distribuirli arrivando a usare anche uno sgabuzzino del tribunale, oltre che lungo i corridoi e altre stanze, perché chi aveva deposto non doveva incontrare gli altri testi in attesa di entrare. Non fu una giornata facile, però il presidente ci elogiò per come avevamo fronteggiato la situazione”.
Erano gli anni dei processi che andavano avanti, a volte, fino a tarda sera e non di rado a mezzanotte le luci erano ancora accese. Non c’erano ancora i riti alternativi davanti al giudice dell’udienza preliminare, ogni causa, anche per il semplice furto di un motorino, veniva discussa pubblicamente dalle parti e l’unica pausa era per il pranzo. Poi, il pomeriggio, di nuovo tutti in aula.
I ricordi
Entrato in servizio durante la presidenza di Enrico Pernice, dopo anni trascorsi a lavorare come amanuense (collaboratori chiamati dagli ufficiali giudiziari per scrivere decreti di condanna penale e altri atti, dietro pagamento a tariffa) Pacilli si congedò quando alla guida del palazzo di giustizia era arrivato Giovanbattista Pucci, succeduto a Marcello Chiattelli, “giudici che ricordo volentieri, insieme ad altri come Giovanni Canzio, diventato meritatamente presidente della Cassazione, Stefano Venturini, Ugo Paolillo, Alberto Caperna, perché con loro sembrava di lavorare in una grande famiglia. Tra magistrati e personale c’era un rispetto reciproco per il ruolo che ognuno rivestiva, tutto avveniva in un clima sereno, adesso invece, da quello che mi raccontano perché non vado più in tribunale, il clima è completamente cambiato”.
Franco Pacilli, nativo di Fiamignano, con origini familiari abruzzesi, potrebbe continuare a sfogliare a lungo l’album dei ricordi, ma preferisce di no: “Sono soddisfatto del mio lavoro e della stima che mi sono guadagnato, ma adesso, alla mia età, vivo alla giornata e incontro qualche amico dei tempi trascorsi”. E’ stato anche lui, con la sua toga, attore di un mondo scomparso.