Fu uno dei più grossi scandali degli anni 80, ribattezzato degli “alberghi d’oro”, un giro di tangenti che faceva capo a cinque funzionari della Regione Lazio, incaricati di concedere i contributi a fondo perduto per la ristrutturazione delle strutture ricettive. Una maxi inchiesta partita da Frosinone dopo l’arresto del proprietario di un hotel, che finì per coinvolgere anche operatori e liberi professionisti delle province di Latina, Roma e Rieti, con la sola esclusione di Viterbo, dove le rispettive procure della repubblica si trovarono a indagare su vicende analoghe che avevano in comune gli stessi dipendenti pubblici come protagonisti negativi.
Albergatori coinvolti
A Rieti, finirono sotto processo operatori turistici di Amatrice, Accumoli, Borbona, Cittareale e Terminillo, una parte dei quali vennero poi assolti dal tribunale di Roma, dove erano stati riunificati tutti i filoni, e dalla Corte di Appello che il 30 novembre 1985 emise una sentenza che, di fatto, scrisse la parola fine alla vicenda in quanto la Cassazione, nel 1987, accolse solo uno dei quaranta ricorsi presentati dagli imputati condannati nei primi due gradi di giudizio. Un iter processuale complesso per il gran numero di parti coinvolte, ma concluso in appena quattro anni, una durata che non è frequente registrare guardando agli attuali tempi della giustizia.
Le misure cautelari emesse dalla procura nel 1982 sulla base degli accertamenti svolti dalla Guardia di finanza reatina, colpirono in Sabina ventitré persone, compresi i funzionari pubblici già inquisiti a Frosinone, tutte accusate di corruzione, truffa aggravata nei confronti della Regione e falso in atto pubblico. L'indagine mise a nudo un giro di tangenti che costringeva gli albergatori intenzionati a ristrutturare alberghi e ristoranti, ad adeguarsi al sistema che faceva riferimento all’Ufficio incentivazione alberghiera. L’inchiesta del sostituto procuratore Giovanni Canzio toccò direttamente alcuni partiti della maggioranza (Dc, Psi e Psdi) alla guida della Regione, e alcuni esponenti furono ascoltati dal magistrato a piazza Bachelet in veste di testimoni, come nel caso del presidente della Regione e di alcuni assessori della Giunta.
Lo spostamento a Roma
Il processo, fissato a Rieti, dopo la citazione diretta a giudizio da parte del pubblico ministero di ventuno imputati (due furono prosciolti in istruttoria), durò una sola udienza. Il collegio penale, presieduto da Alberto Caperna, accolse l’eccezione sollevata da gran parte degli avvocati difensori, secondo i quali la consumazione del reato più grave tra quelli contestati, il falso in atto pubblico, era avvenuto a Roma e non a Rieti. Così tutto fu trasferito per competenza territoriale nella Capitale, dove pure confluirono i tronconi aperti nelle altre province laziali, e si celebrò un unico dibattimento con 77 imputati terminato nel 1983.
Le difese: è concussione
La tesi sostenuta dagli avvocati difensori, tra i quali i reatini Pietro Carotti, Olinto Petrangeli, Leo Rocca e Luigi Colarieti, puntò ad accreditare gli albergatori come vittime del sistema in quanto “pur avendo eseguito le opere previste e avendo diritto ai benefici, furono costretti a pagare tangenti ai pubblici ufficiali perché indotti dalla minaccia, più o meno esplicita, di ostacoli o addirittura impedimenti all’ammissione dei finanziamenti”. In buona sostanza, si trattava di concussione da parte dei funzionari, ma i giudici della terza sezione penale di Roma mantennero in piedi l’accusa di corruzione “perché – spiegarono nella sentenza – se è pur vero che l’iniziativa partì quasi sempre dai funzionari, la trattativa si svolse su un piano di parità tanto che è comune la considerazione che bisognava necessariamente “ungere le ruote” se si voleva affrettare la pratica”.
“La sentenza ha ricondotto in molti casi, nelle giuste dimensioni, le responsabilità degli albergatori. Non erano certamente loro a promuovere il giro di tangenti e corruzione” commentarono Pietro Carotti e Olinto Petrangeli.
Al di là delle risultanze processuali, lo scandalo degli “alberghi d'oro” suscitò grande scalpore, non solo nel Lazio, ma anche in Italia perchè disegnò scenari che, dieci anni dopo, con Mani Pulite, avrebbero rivelato l’esistenza di sistemi consolidati di malaffare che univano il mondo politico con quello imprenditoriale. Per Rieti fu, invece, in assoluto, insieme a quella sulla Tangentopoli Crea (esplosa nel 1992) l'inchiesta più clamorosa in tema di corruzione. Le erogazioni furono sospese per un lungo periodo, salvo essere poi ripristinate per potenziare le strutture ricettive e alberghiere in occasione dei Mondiali di calcio “Italia ‘90” e del Giubileo del 2000.
Danno erariale prescritto
Nel 1997, esattamente dieci anni dopo la sentenza della Cassazione, i cinque funzionari della Regione condannati per corruzione, furono chiamati a risarcire un danno erariale di 2 miliardi e 605 milioni. Dopo la prima sentenza, nel 2003 la terza sezione centrale di Appello, accogliendo l‘eccezione presentata dagli avvocati difensori, prosciolse gli ex dipendenti regionali giudicando prescritta in origine l’azione della procura regionale, intervenuta dopo oltre dieci anni.