E' trascorso quasi un secolo, ma le cause e le rivendicazioni riferite a violazioni sindacali e contrattuali non erano poi diverse da quelle che poi, nei decenni successivi, condussero alla nascita dello Statuto dei lavoratori e all'introduzione di regole a garanzie dei dipendenti, come l'articolo 18, tutto stracciato nell'arco di pochi anni con il varo di leggi - leggi Jobs Act - che hanno reso precario il mondo del lavoro e indebolito il sistema delle tutele.
Salta fuori, così, dagli archivi della storia una causa civile promossa quasi cento anni fa, nel 1924, da uno stabilimento tipografico romano nei confronti dei due fratelli Mussolini, Benito e Arnaldo, rispettivamente proprietario e amministratore del “Popolo d’Italia”, il giornale politico diventato organo del Partito Nazionale Fascista, stampato dal 1922 al 1943. Era la fotografia di una classica controversia dei tempi nostri, relativa a stipendi e straordinari non pagati, operai licenziati e al loro posto assunto personale senza qualifica, nessun rispetto per l’orario di lavoro, continuamente violato, e applicazione del contratto tipografico ignorato.
La vertenza di lavoro, che coinvolse direttamente il Duce, è saltata fuori da un archivio di quegli anni grazie all’avvocato reatino Andrea D’Orazi, e contiene tutti gli atti della citazione inoltrata davanti al tribunale di Roma dall’avvocato Luigi Cartasegna, esperto civilista dell’epoca, riguardante il mancato rispetto della convenzione siglata tra lo stabilimento tipografico e Mussolini per stampare il giornale. “Nonostante tutte le ricerche che ho effettuato, tentando anche di rintracciare gli eredi dell’avvocato Cartasegna, non è stato possibile recuperare la sentenza del tribunale, che potrebbe anche non essere stata pronunciata nel caso che le parti abbiano raggiunto una definizione bonaria - spiega l’avvocato D’Orazi – ma a distanza di quasi un secolo tanti registri di quegli anni non si trovano più. All’interno del fascicolo non si riscontra comunque alcuna proposta transattiva e neppure sulla copertina sono state riportate annotazioni sull’esito. Mi riservo, comunque, di fare un tentativo con l'Archivio di Stato per rintracciare l'atto conclusivo". Emerge dalle carte processuali uno spaccato del difficile mondo dell’editoria del tempo (non erano infrequenti gli scioperi di tipografi, proti, linotipisti, macchinisti, fasciatori, correttori di bozze, addetti alla piegatrice – tutte figure professionali sconosciute al mondo di internet – proclamati dal Sindacato nazionale fascista poligrafici), quando l’epoca mussoliniana era all’inizio e utilizzava soprattutto i giornali per diffondere la propaganda del partito, anche se non tutto avveniva secondo le regole.
Anzi, la rottura tra la società incaricata di stampare il Popolo d’Italia e i fratelli Mussolini si fondò proprio sulle ripetute violazioni della convenzione contestate dalla società Stabilimento Poligrafico Editoriale Romano a Benito (indicato sempre come Sua Eccellenza in ogni passaggio) e al commendatore Arnaldo, morosi per il mancato pagamento dell’affitto (6 mila lire a settimana) della sede di piazza Montecitorio, situata sopra la tipografia, di varie indennità, oltre che per l’organizzazione del lavoro che non rispettava i diritti dei lavoratori. Invece di due edizioni giornaliere (mattina e pomeriggio), il personale era costretto a stamparne fino a sette o otto, con ciò obbligato a restare in tipografia fino a mezzanotte anziché fino alle venti (testuale: “Provocando imprevisti consumi di materiale, energia, luce, gas, obbligando il camioncino della società a fare una media di nove viaggi al giorno da piazza Montecitorio alla Ferrovia, e ciò senza pagare un qualsiasi corrispettivo”).
Ma quel che più era stato ritenuto grave dall’Editoriale Romano, era stata la sostituzione in blocco degli operai specializzati effettuata con un’altra squadra inesperta proveniente dall’esterno. Gli avvocati di Mussolini non negarono buona parte delle contestazioni, ma rinviarono la palla in campo avverso invocando non meglio chiarite incomprensioni contrattuali. Una sola cosa risulta con certezza dagli atti: pochi mesi dopo il Popolo d’Italia fu costretto a cambiare tipografia per poter proseguire nella stampa del giornale.