La mattina dell’11 maggio 1985 la Sabina si svegliò scoprendo di essere tra i luoghi scelti da Cosa Nostra per nascondere in una villa di Poggio San Lorenzo l’esplosivo utilizzato per compiere l’attentato al treno rapido 904, avvenuto il 23 dicembre 1984 nella galleria Val di Sambro, nel tratto ferroviario Firenze-Bologna, costato la vita a 16 persone e il ferimento di altre 267. Una strage per la quale furono condannati all’ergastolo, in via definitiva, il cassiere della mafia Pippo Calò e Guido C., il prestanome romano che aveva acquistato la villa, pagandola 250 milioni, attraverso una società di comodo, e che mori suicida nel carcere di Sulmona il 2 gennaio 2005, negando sempre (scrisse anche un memoriale difensivo prima di uccidersi) di aver avuto ruoli nell’attentato e di ignorare cosa fosse stato realmente nascosto nell’edificio.
Lo stesso Calò, che aveva ordinato l’acquisto della villa, non ammise mai le proprie responsabilità in merito alla strage. Una notizia shock per il Reatino, che pure aveva ospitato covi logistici negli anni del terrorismo (nel 1979, a Vescovio di Torri in Sabina, fu smantellata la base delle Unità Combattenti Comuniste), alla quale i telegiornali dell’epoca dedicarono le aperture dei notiziari e provocò l’arrivo in massa nel piccolo comune sabino di inviati di tutte le testate giornalistiche nazionali.
La scoperta
Alla villa immersa nel verde di Case Sparse - non lontana da quella abitata dallo scomparso Pietro Verga, già prefetto di Rieti dal 1978 al 1983 e poi Alto Commissario per la lotta alla mafia in Sicilia, sequestrata insieme ad altri immobili acquistati dal boss della mafia - la squadra Mobile romana guidata da Rino Monaco, investigatore impegnato in prima linea contro la criminalità organizzata, ci arrivò alcune settimane dopo l’arresto avvenuto il 29 marzo di Calò e di altre 28 persone.
Monaco e i suoi uomini, affiancati sul posto durante le perquisizioni dalla Mobile di Rieti, rinvennero con l’ausilio dei cani, ben nascosti nell'intercapedine di un muro della cantina, dietro scaffalature contenenti un gran numero di bottiglie di vino, sei chili e mezzo di eroina purissima, tre pistole a tamburo 357 Magnum, un fucile a pompa calibro 12, due mine anticarro e, circostanza ancor più inquietante, diversi chili di tritolo ed esplosivo plastico Semtex, una miscela particolare composta da T4 e pentrite, di produzione cecoslovacca e di cui era vietata l’importazione in Italia. Inoltre, detonatori del tipo utilizzato a Trapani per compiere il fallito attentato al giudice Carlo Palermo, dove invece morirono una giovane madre con due sue figliolette.
La droga, proveniente dal Medio Oriente, era stata confezionata e chiusa in confezioni singole. Gran parte del materiale stava in una grande valigia, murata solo da pochissimo tempo perchè la polizia scientifica non rilevò particolari depositi di polvere. Le due mine erano custodite dentro due casse imbottite di paglia e polistirolo: erano del tipo più potente conosciuto fino ad allora e, secondo la polizia, sarebbe dovuto servire per compiere attentati. Ma l’attenzione principale della Criminalpol si concentrò sull’esplosivo e le perizie chimico-balistiche dimostrarono che la composizione chimica era la stessa di quella impiegata per compiere la strage di Natale nella galleria di Val di Sambro.
L'inchiesta
L’inchiesta condotta dal pubblico ministero Pier Luigi Vigna (spesso presente negli anni 80 a Rieti, dove alloggiava sotto scorta all’hotel 4 Stagioni) diede un nome anche ad altri personaggi coinvolti nell’attentato, a partire da un esperto balistico tedesco, condannato con l’accusa di aver confezionato il dispositivo elettronico utilizzato per far esplodere l’ordigno sulla Firenze-Bologna. Al termine di cinque processi, una sentenza-bis della Corte di Appello di Firenze, emessa nel 1992 dopo il quarto procedimento ordinato dalla Cassazione presieduta da Corrado Carnevale, condannò all’ergastolo alcuni imputati, tra i quali Calò e Guido C., inflisse 22 anni al perito tedesco Friedrich S., e riconobbe colpevoli di banda armata altri personaggi legati a mafia e criminalità. I ricorsi furono poi respinti dalla Cassazione.
Il processo al capo di Cosa Nostra
Per la strage del Rapido 904 fu processato anche il capo di Cosa Nostra Totò Riina, ritenuto il mandante in quanto aveva autorizzato l’uso dell’esplosivo. Assolto nel 2015 dalla Corte di Assise di Firenze con la vecchia insufficienza di prove, morì nel 2017 mentre era in corso il processo di appello.
A coinvolgerlo fu Giovanni Brusca, condannato per la strage di Capaci del 1992 nella quale morirono il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta, che riferì di aver ricevuto da Calò l’ordine di spostare il deposito siciliano di San Giuseppe Jato dopo la strage di Natale, dove c’era altro esplosivo come quello trovato a Poggio San Lorenzo, ma Riina gli aveva ordinato di non farlo e di lasciare l’arsenale dove stava. Al processo di Firenze arrivò poi l’ennesima conferma, questa volta da parte del consulente della polizia scientifica Giulio Vadalà, che il plastico usato per l’attentato del 1984 proveniva dalla villa scoperta in Sabina.
L’ex villa deposito di Cosa Nostra è oggi abitata da privati. Al termine dell’inchiesta, fu ricompresa tra i numerosi immobili e le azioni sequestrate a Pippo Calò dal Nucleo centrale di polizia tributaria della Guardia di Finanza in base alla legge Rognoni-La Torre, e successivamente venduta all’asta.