Il 23 dicembre 1984, alla vigilia di Natale, si incrociarono le storie di una villa di Poggio San Lorenzo, non lontano da Rieti, e quella di una delle stragi più sanguinose avvenute in Italia, quella del Rapido 904 Napoli-Milano, che causò sedici morti e 267 feriti dopo l’esplosione di una bomba a bordo del treno mentre percorreva una galleria dell’Appennino centrale. A mettere in collegamento la villa e l’attentato fu il ritrovamento all’interno dell’immobile di un esplosivo, prodotto in Cecoslovacchia e denominato “Semtex-h-plastic”, di altissimo potenziale. Ci lavorò a lungo la Criminalpol, su incarico delle procure di Roma, Bologna e Firenze, e le perizie chimico-balistiche dimostrarono come quel tipo di materiale fosse compatibile con quello usato per compiere la strage del Rapido 904 nella galleria di Val di Sambro: anche l’esplosivo risultò del medesimo tipo, con la stessa composizione chimica. Si scoprì che quella villa, dove era piombata la Squadra Mobile di Roma l’11 maggio 1985 tra la sorpresa degli stessi abitanti del paese che non avevano mai notato alcunchè di sospetto, cinque mesi dopo la strage di Natale, apparteneva alla mafia ed era uno dei due depositi - l’altro si trovava a San Giuseppe Jato, in Sicilia - in cui Cosa Nostra custodiva armi, eroina, esplosivo plastico in diverse pezzature, detonatori del tipo utilizzato a Trapani per l'attentato al giudice Carlo Palermo, che causò la morte di una giovane madre con due sue figliolette. Ancora, mine anticarro che sarebbero dovute servire per compiere attentati a macchine blindate in uso a magistrati e uomini dello Stato. Ad acquistare la villa era stato Guido Cercola, prestanome e braccio destro di Pippo Calò, considerato il cassiere della mafia, e in quell’immobile immerso nel verde della Sabina, lontano da occhi indiscreti, secondo la ricostruzione della polizia si erano svolti summit tra boss mafiosi.
L’inchiesta
Emersero rapporti tra Cercola e Friedrich Schaudinn, incaricato di produrre alcuni dispositivi elettronici da usarsi per attentati e simili a quelli scoperti nella villa di Poggio S. Lorenzo, come pure i magistrati sostennero l’esistenza di linee di collegamento tra Calò, mafia, camorra, terrorismo eversivo di destra, massoneria e criminalità organizzata: questi rapporti vennero descritti da diversi personaggi vicini a questi ambienti e le deposizioni che ne dettagliavano i legami emersero al maxiprocesso celebrato a Palermo nel novembre 1985, di fronte al giudice istruttore Giovanni Falcone, dove Calò fu processato e condannato all’ergastolo per associazione mafiosa e altri episodi delittuosi. Cercola e Calò, insieme al perito tedesco Friedrich Schaudinn, esperto nella preparazione di ordigni per compiere attentati, e un’altra serie di personaggi legati a mafia, camorra e ambienti della criminalità organizzata, furono così coinvolti nell’inchiesta sulla strage condotta dal pubblico ministero Pierluigi Vigna, il quale, il 9 gennaio 1986, imputò formalmente il gruppo di indagati con l’accusa di aver compiuto la strage “con lo scopo pratico di distogliere l'attenzione degli apparati istituzionali dalla lotta alle centrali emergenti della criminalità organizzata che in quel tempo subiva la decisiva offensiva di polizia e magistratura per rilanciare l'immagine del terrorismo come l'unico, reale nemico contro il quale occorreva accentrare ogni impegno di lotta dello Stato”.
I processi
I procedimenti giudiziari (sei processi in otto anni) portarono alle condanne, in via definitiva, dei boss di Cosa nostra Giuseppe Calò e del braccio destro Guido Cercola all'ergastolo, di Franco Di Agostino a 24 anni e dell'artificiere tedesco Friedrich Schaudinn a 22 anni, riuscito a fuggire in Germania. Ad altri esponenti della camorra venne alla fine imputata solo la detenzione di esplosivo, con pene inflitte da 1 anno e 6 mesi a 3 anni. Sia Calò che Cercola hanno sempre negato ogni coinvolgimento nella strage del Rapido 904, soprattutto quest’ultimo che, il 2 gennaio 2005, si suicidò nel carcere di Sulmona dove stava scontando l'ergastolo, lasciando anche una lettera in cui accusava gli inquirenti di non avergli mai voluto credere.
Le accuse a Totò Riina
Decenni dopo, per la strage del Rapido 904 fu processato anche il capo di Cosa Nostra Totò Riina, ritenuto il mandante in quanto aveva autorizzato l’uso dell’esplosivo. Assolto nel 2015 dalla Corte di Assise di Firenze con la vecchia insufficienza di prove, morì nel 2017 mentre era in corso il processo di appello. A coinvolgerlo fu Giovanni Brusca, condannato per la strage di Capaci del 1992 nella quale morirono il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta (oggi il boss è diventato collaboratore di giustizia), che riferì di aver ricevuto da Calò l’ordine di spostare il deposito siciliano di San Giuseppe Jato dopo la strage di Natale, dove c’era altro esplosivo come quello trovato a Poggio San Lorenzo, ma Riina gli aveva ordinato di non farlo e di lasciare l’arsenale dove stava. Al processo di Firenze arrivò poi l’ennesima conferma, questa volta da parte del consulente della polizia scientifica Giulio Vadalà, che il plastico usato per l’attentato del 1984 proveniva dalla villa scoperta in Sabina.